A crack on your immortal face asked what had happened this time — why did I call again.

[Calliope x Aidan]

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    Crack

    La sabbia rossa dell'arena è ovunque — sulle mie labbra, dentro le iridi accecate dal funesto desiderio di morte, tra i vestiti logori e le nocche insanguinate; ed è tutto ciò che riesco a sentire, avvolta nella colpa e percossa dalle conseguenze di un errore fatale.
    Il petto sobbalza, aritmico, colto nello spasmo della difficoltà d'esser lucida e nell'insignificante contrazione che ancora mi tiene in vita — le mani stringono un corpo ormai esanime, una chioma scura che è soltanto corona della diafana essenza che lentamente scivola via: è morta. Sussurro. È morta. Non riesco a non pensare a quanto sia bella, a quanto vana ed insignificante sia adesso la mia vita. Vivo questo momento in eterno, supplicando e dannando ogni singolo muscolo del mio corpo ed intimandolo al movimento — pericolo, pericolo, pericolo. Come un animale in gabbia attorniato dai predatori percepisco un chiaro movimento nell'aria, un cambiamento netto e presente.
    Sento il fiato caldo della folla sul collo, gli occhi iniettati di una furia a me indirizzata, e mi rendo conto di essere sola al mondo, indifesa e ripagata dalla stessa medaglia che a lungo ho brandito come la più fiera ed efficace delle armi — soccomberò qui, ed ora.

    Cal

    Sin dal suo primo passo mosso in quell'arena fatta di ferro e sangue, Cal aveva realizzato che presto ci sarebbe stato un altro nome inciso tra i Campioni di Animosity — il suo. Aveva immaginato la sua resa innumerevoli volte, tanti gli avversari che aveva affrontato e tante le difficoltà che aveva dovuto superare. Non aveva altro che la lotta, nessun altro desiderio se non quello venefico della vittoria, nessun altro scopo se non le urla vittoriose ed il tifo affannato dei suoi spettatori. All'interno di quel perimetro era carne, era umana, eppure così tremendamente debole ed esposta — tra la polvere ed i detriti poteva ergersi vittoriosa ed ignorare la Furia che come un cappio le si stringeva al collo.
    Per anni, Calliope non aveva desiderato nulla così ardentemente — non vi era altro nel suo semplice mondo fatto di guerra e vittorie, nient'altro — prima di Sindar. Sapeva che quella relazione poggiava le sue basi su qualcosa di tremendamente sbagliato, e combatteva quotidianamente contro la sua stessa natura e quel forte senso di giustizia che provava a distoglierla dal riscatto, dalla rivincita, dalla resistenza. Lo sapeva, ed ogni volta che le sue labbra si poggiavano a quelle della ragazza più giovane in cerca di vicinanza, affetto e gratitudine, era sempre più vicina alla sua disfatta. Alla Caduta. Lo sapeva, eppure erano come ambrosia, miele puro e così dolce da non averne mai abbastanza — lo sapeva, e quella consapevolezza scavava solchi che mai avrebbe potuto riempire, neanche con l'oceano delle sue lacrime.
    Calliope non aveva mai perso. Non aveva mai ceduto il fianco a nessun avversario, e ne aveva affrontati di diversi — sempre più grossi, sempre più temibili. Sempre più furiosi e così simili a lei. Eppure, il desiderarla così ardentemente l'aveva condannata alla colpa più grande, quella consumata alle spalle di Rodran, il padrone di tutto ciò che i suoi piedi e le sue mani potessero toccare in quel campo di battaglia che aveva cominciato a considerare la sua casa.
    Quando quel loro idillio era stato finalmente portato alla luce, Calliope non seppe se sentirsene più sollevata o più devastata. Di nuovo, la dicotomia che muoveva i suoi passi aveva ricominciato a pulsarle nelle orecchie, a scontornare i limiti autoimposti, a scardinare i principi su cui si basava la sua morale. E quando Rodran aveva gettato il guanto di sfida ai suoi piedi, Calliope non seppe bene cosa la spinse a raccoglierlo e stringerlo tra le mani callose e nodose — compì la scelta forse con leggerezza, forse con l'ansia degli amanti desiderosi di stringersi l'un l'altro, con l'ottimismo di chi mai aveva perso.
    Le sorti di quella battaglia così disperata erano già sussurrate tra i luridi vicoli di Animosity. Tutti sapevano, eppur tutti tacevano — Calliope l'inarrestabile, Calliope la torre inespugnabile.
    E così, forte di quegli epiteti guadagnati con sudore e dedizione, la guerriera aveva affondato la sua Ira nel corpo di Rodran. Aveva dilaniato le sue carni, grugnito insulti e riso di gusto ad ogni suo rantolo più sofferto. Aveva calcolato tutto — i punti deboli del suo avversario, il punto cieco di un occhio ormai reso guercio dall'esperienza nell'arena, una tecnica elegante ma non più allenata. La poca cura nel portare avanti i colpi: qualsiasi cosa.
    Aveva calcolato tutto, ma non la possibilità di poter perdere improvvisamente il controllo.
    La Rabbia, la Furia, l'Ira, il Rosso, il Nero — Calliope.
    Non aveva mai imparato ad affrontare i suoi demoni, piuttosto preferendo abbracciarli e tenerli stretti a sé. La noncuranza, la poca cura, la superficialità con cui aveva affrontato quell'ennesimo combattimento l'avevano resa debole, e patetica. Con Sindar non doveva preoccuparsi di essere presente a se stessa: uno sguardo, un sorriso, un tocco, tutto era finalizzato a farla sentire una persona normale. La verità era che Calliope non ricordava più come si vivesse senza Sindar, senza amore, senza scopo.
    Amava diverse cose della donna — il suo corpo, il suo sorriso, la sua anima e le sue qualità migliori, tra queste una era il coraggio. E fu proprio il coraggio a farle muovere passi decisi verso il suo sposo, intenta a salvarlo quantomeno dall'onta di perdere la vita dinnanzi il suo pubblico pagante. Voleva intervenire, proteggere ciò che restava degli sbagli di Cal, salvarla dalla condizione di esasperante sofferenza che l'avrebbe attanagliata successivamente, da quel desiderio di voler fermare quella necessità ed al contempo di volerla lasciare libera di prendere qualsiasi cosa.
    E quell'unico passo mosso nella sua direzione aveva posto fine ad ogni piccolo sogno, ad ogni piccolo piano o progetto costruito assieme — il prendere un animale assieme, l'andare in riva al fiume a bagnare i piedi ed a schizzare l'acqua finché stanche non si sarebbero rotolate l'una dentro l'altra, ad aspettare l'alba e poi il tramonto e poi l'alba e poi.
    E poi la morte — le mani di Calliope strette attorno al suo sottile collo, lo spezzarsi d'ossa e la luce della vita scivolare via, sempre più lontana.

    Cal

    I colpi mi giungono come ovattati da qualcosa di peggiore — sento di meritarli, sento la necessità di chiudere gli occhi con Sindar. Un dolore insopportabile mi costringe sulle ginocchia. La maglia mi viene strappata, il mio corpo è brutalizzato e vandalizzato dalla decisione della folla di porre fine a tutto. Di uccidere Calliope, il Caronte dell'arena. La schiena brucia, tagliata e colpita da qualcosa di contundente che perfora il derma e strappa i muscoli tonici: non riesco a scorgerne l'origine, ma non me ne preoccupo. Le tempie pulsano, ed il sangue cola via come una fontana. Sento gli zigomi rotti, le spalle dislocate, le gambe completamente devastate dalle percosse e dai calci lì dove fa più male. Qualcuno graffia insistentemente contro il mio inguine, qualcuno vuole farmi sanguinare in qualche altro modo — forse lo fanno, vittime di quella primigenia Ira di cui tanto sono innamorata. Li capisco — li posso capire. Sorrido, e piango, e respiro e mi dispero. Lascerò che facciano di me ciò che desiderano, di soddisfare i più perversi desideri per poi farmi gettare tra i cumuli di cadaveri che questa città nasconde.
    Vorrei reagire, vorrei vivere, ma non ci riesco — non ne ho più le forze.
    Coloro che più amo sono quelli che mi fanno il male peggiore — ma sono io quel Male generato dall'inadeguatezza dell'amore.

     
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    Le tue palpebre ormai stanche si risollevano un'ultima volta quando percepisci di nuovo qualcosa di diverso nell'aria. È pesante, ma non per via della moltitudine di iracondi che ti trascinano nel loro fango di disprezzo e violenza — c'è un'elettricità diversa, la tensione nella sala del giudice che delibera sul fato altrui — il tuo.

    Le percosse bruscamente si interrompono; un'altra ombra si solidifica dalla tua ombra. Il dolore, più mentale che fisico, quasi ti acceca, ma comunque la vedi: la figura che si concretizza al tuo fianco come se fosse sabbia trasportata dal vento sorprende te quanto i tuoi assalitori, e per un momento il tempo è in stasi. Ha il volto coperto da un'elaborata maschera rossa, e rosse sono anche le vesti — rosse e viola, i colori dell'Arena, delle ferite, degli errori e del loro costo.

    Con movimenti tanto calcolati da apparire surreali nel contesto in cui si trova, la figura estrae una mano dalle pieghe delle vesti e si china verso il terreno macchiato del sangue tuo e di chi ha pagato prima di te. L'eleganza e la calma con le quali si anima il suo corpo stridono intensamente con la massa inordinata che le brulica attorno.

    Un singolo polpastrello si poggia al suolo, e una folata d'aria bollente di sprigiona da quel lievissimo impatto. La senti passarti accanto, ma senza toccarti, mentre le urla sorprese della folla vengono spazzate via come i loro corpi, spinti verso i confini di quel teatro di dolore. Un vento più intenso e soffocante di quelli desertici che i Redeemed tanto temono, e se all'inizio pensi di non averlo percepito solo perché ormai i tuoi nervi hanno smesso di funzionare, ti rendi presto conto che è impossibile che tu non stia ansimando contro le mura di cemento. Sei stata volontariamente esclusa da quella manifestazione spettacolare di puro potere.

    Quando la figura si china su di te, noncurante dei lamenti che si sollevano intorno a voi, deduci che è per sua volontà che le sei rimasta vicina. Non scorgi nemmeno un millimetro della sua pelle — persino la sua mano è guantata — e l'unica cosa che la maschera non cela sono due occhi di un colore che non hai mai visto.

    Sono viola come il cielo al tramonto, un viola acceso, terrificante, un viola che non può in alcun modo essere umano eppure si sta posando su di te senza alcuna pietà. Se anche non fossi nuda, probabilmente saprebbe strapparti di dosso tessuto e carni e guardarti fin dentro la cassa toracica.

    «Non morirai oggi,» sibila con finalità, dopodiché ti afferra, con un movimento repentino più da rettile che da mammifero, stringendo i suoi artigli attorno al tuo polso.

    L'Arena si dissolve come un incubo alle luci dell'alba. I volti distorti dall'orrore, dalla sofferenza e più di tutto dalla rabbia scompaiono in un nero profondissimo. Se la morte è quiete, la quiete dev'essere questa.

    Dura solo un momento, un momento nella notte più buia, dopodiché riemergi, il polso ancora stretto tra le grinfie di qualcuno che ti ha salvata. È come riemergere da un lago di pece; la luce brutale del sole ti ferisce le pupille per qualche secondo. Le tue ginocchia ti sorreggono a mala pena. I rumori di Animosity sono ovattati, lontani.

    La figura è ancora lì, accanto a te, anche se lascia cadere il tuo braccio inerte. Quegli occhi privi di senso non lasciano trasparire alcuna emozione, eppure si sfila il mantello — rosso — e lo posa sulla sabbia morbida ai vostri piedi. Le tue membra sono esauste. Il tuo corpo e il tuo spirito sono attraversati da una stanchezza antica di eoni, la stanchezza di chi si è rassegnato alla morte e poi è stato strappato via dal suo abbraccio con la forza.

    Accetterai l'invito?

    Senza_titolo-4



    Edited by Thunderskin - 7/4/2023, 11:13
     
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    One cannot deny the animal within.

    La reazione si concatena all'azione e tutto intorno percepisco il sapore denso del sangue sulle labbra spaccate, il mio corpo piegato dal vessillo della vendetta e del riscatto e decine di persone combattere per strappare via un pezzo da me, un pezzo dal mio corpo — una pietra dopo un'altra sulla lapide che mi è stata costruita quando ho accettato di affrontarlo.

    Di alcuni ne riconosco i volti, così come riconosco l'ineluttabilità del destino e le sorti della fama, peggior nemica — provo a sforzarmi, a difendermi. Provo a fare leva sui loro colpi deboli e vigliacchi, provo a reagire e a ripetermi che presto tutto finirà: il mio corpo si ergerà fiero nella massa degli anonimi, trascinato tra i feretri del tempo e dell'oblio e ricordato per essere stato il più temibile tra gli Acrimoniosi. Una fine degna, direbbe mio padre — a lui che va il mio ultimo singulto di disprezzo prima di abbandonarmi al caldo e sicuro abbraccio del Nulla.

    C'è un momento, nella furia della battaglia e nel dolore della sofferenza, in cui il tempo sembra essere fermo ed immobile — stasi funesta, l'eternazione di un momento fatto di angoscia e derisione. È un qualcosa che ho sempre scorto dal volto dei Caduti, coloro che ho schiacciato sotto la forza dei miei pugni. Un qualcosa che ho sempre anelato, forse come ultima liberazione da una vita di schiavitù, forse per sentire dentro qualcosa di così corrotto da convincermi di essere così per un motivo, la cieca indifferenza altrui.

    Lo sento ora, percepisco il dissacrante sapore del nero fagocitarmi e sbudellarmi sino in fondo, sempre più in fondo. Sempre più Nero — finché questo non diventa Viola, e mi ridesto, sorpresa, tremante. Bramo, desidero, ardo — eppure questo calore infernale non è niente in confronto alla bollente sensazione di quello sguardo nella folla degli acrimoniosi. Avverto un rumore assordante e non comprendo se è frutto della mia mente o se fa parte di ciò che chiamiamo Realtà, ma per qualche istante tremo — per la prima volta dopo anni di puro ed atavico terrore. Tossisco, sputo un grumo di sangue e mi sollevo sulle ginocchia; è il massimo che posso fare, oltre ad avvertire ogni parte del mio essere lacerato dalla violenza e dalla furia devastante dei loro pugni.

    Non ricordo esattamente quando mi è parso di vederla già — forse nei miei sogni, forse tra i timidi incubi che violentavano la mia mente, forse i cadaveri che ho lasciato indietro. Forse la Paura, o la Disillusione. La sua presenza è uno squarcio tra le tenebre, un improvviso fascio di luce che illumina ma che al contempo rende ciechi, semplicemente l'assenza di ogni possibile scelta. Trattengo un conato di vomito e porto le mani alla testa, premendo forte le dita contro le tempie — le urla strazianti di sorpresa e di dolore di chi prima mi stava circondando sembrano gorgoglii distinti, suoni ferali come quelli di bestie dalle fattezze umane, per qualche momento penso di aver sempre guardato, ma non di non averi mai visto. [...]

    Le dita diafane e lunghe si stringono contro il mio polso. Sento un freddo bruciante brulicare lì, sulla superficie toccata — sento la sabbia nei polmoni, il freddo negli occhi, ma soprattutto non riesco a dare esattamente una descrizione precisa della consistenza del suo tocco e della sua mano guantata. Potrebbe non esistere — e forse non esiste. L'assenza di ogni cosa ed un Nero profondo mi costringono a cercare aria, mentre provo a divincolare questo contatto salvifico. Sono conscia che la mia sopravvivenza, in qualche modo, possa dipendere solo ed esclusivamente da queste dita — da questa morsa. Non vuole che io muoia oggi, eppure è tutto ciò a cui riesco a pensare.

    Le distorsioni che compongono la mia realtà si fondono e si dilatano proprio dinnanzi il mio sguardo stanco e sfibrato dalla lotta: non saprei dire il posto in cui mi trovo, non saprei descrivere il viaggio appena compiuto né la totale assenza di colore. Non ho mai distolto lo sguardo dal Suo — dall'intricato giogo che compone la sua fierezza e la sua surreale presenza. Quelle iridi dense ed oscure mi destabilizzano e mi fanno provare una Rabbia ancor più profonda.

    Vorrei disintegrarla. Saltarle al collo e strapparle la gola. Percuotere la sua testa sino a deformarne il cranio. Stringere i suoi occhi tra il pollice e l'indice — pregustare le mie fauci sulla pelle, pregustare la sorpresa di scoprirne le forme — uomo donna, Belva o Demonio? Vorrei farlo e vorrei conoscerne i motivi, vorrei sapere cos'è questa devastante sensazione di oppressione che provo da quando si è palesata — vorrei che mi liberasse, e che mi avesse lasciato morire. Forse.

    Barcollo pericolosamente puntando il mio sguardo rosso al suo, concatenando intenti e fierezza — dignità, privazione. Non voglio pensare a ciò che ho fatto, non voglio realizzare di essere il Mostro che ho sempre saputo essere. Voglio solo vincere, agire, scappare. Oggi non sono morta, e voglio sapere perché — perché proprio io, tra anime più meritevoli nell'aula della Giustizia e dell'Ordine.
    Mi inginocchio sul mantello, furibonda, facendo risuonare in modo gutturale tutto il mio dissenso, tutti i miei demoni — tutta la mia vulnerabilità. La figura è come uno squarcio nel mio presente, me ne sento attanagliata, attraversata. E provo freddo, un freddo antico, ma non oso muovermi né compiere un altro passo — gli occhi iniettati di sangue e il volto trasfigurato dell'Ira sono i miei più fidi alleati — gemme cremisi. Respiro profondamente cercando di essere presente a me stessa, ma il gonfiore del mio volto e le condizioni del mio corpo mi costringono a tenere la fronte premuta al suolo, mentre in posizione fetale cerco di contenere il dolore bruciante che sento. Non ho altra scelta che abbandonarmi alla sua volontà — non ho altra scelta che piegarmi a lei.

    «Brucia...» sussurro a fatica, senza riuscire a contenere l'Ira. Non capisco perché, anche adesso, non mi abbandoni — eppure mi basta stare ferma ed in silenzio per realizzarne le motivazioni. Sono arrabbiata perché sto permettendo a lacrime deplorevoli di sgorgare dai miei occhi e smarrendomi nella debolezza che mi ha reso oggi perdente e non vincente. Voglio ucciderla perché sono vulnerabile. Voglio denigrarla per sentirmi di nuovo forte. Voglio odiarmi perché ho bisogno di aiuto.
    «La schiena... tutto... fa male...» Gli squarci al centro della schiena si dilaniano ad ogni singhiozzo, ad ogni colpo di fiato — voglio che finisca, voglio che tutto attorno a me torni a stare in silenzio. Voglio gridare di furia infinita.

    Cal
    Cal.



    Edited by desenlace. - 9/3/2022, 11:31
     
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    Senti il fruscio del vento e scorgi nuvole di sabbia lasciarsi trasportare dalla corrente, eppure neanche un granello sfiora le tue ferite. Neppure il più lieve soffio raggiunge il tuo corpo martoriato.

    «Ancora ti abbandoni alla Rabbia, acrimoniosa? Ancora ti abbandoni alla rabbia che oggi, alla luce del sole, ti ha privata di quanto più caro avessi?» Risponde al tuo ringhio con il suo ringhio. Aidan non si lascia intimidire dalla sfrontatezza nella tua espressione, né dai tuoi movimenti iracondi; non è disprezzo ciò che distorce il suo viso, ma non è neanche compassione. Resta in severo silenzio mentre cerchi una posizione che ti conceda tregua dal dolore — che, purtroppo per te, sembra eluderti a ogni tentativo.

    «Che bruci.»

    Gli occhi di Aidan sono stretti, senza pietà. Non vuole che dimentichi, non vuole che ti illuda — senza dubbio alcuno, oggi non sei vittima, ma carnefice. Oggi meriti il contrappasso.

    «Che bruci e sigilli con il fuoco il dolore che hai provato e che hai causato,» piega le ginocchia e si china sulla sabbia quasi rabbiosamente, e il suo tocco delicato è paradossale accanto alla violenza con cui ti schiaffeggiano le sue parole, accanto al presuntuoso sguardo crepuscolare che ti sfida a controbattere.

    «Ogni crimine dev’essere punito — ogni Furto dev’essere ripagato,» avverti le ferite più profonde sulle scapole e sul dorso scottare in maniera diversa — l’odore di carne annerita ti suggerisce dopo qualche secondo che Aidan le sta cauterizzando con mani di fuoco. Ti rendi conto che, razionalmente, dovrebbe farti più male di quanto ne faccia, ma il tuo corpo sotto stato di shock a mala pena registra la differenza tra questo dolore e quello causato dalla folla inferocita.

    «E tu non morirai oggi perché devi ancora scontare la tua pena.»

    Qualcosa di fresco entra infine a contatto con la tua pelle, e la sorpresa e il distacco sono tali da farti quasi trasalire. La vista e i sensi annebbiati ti impediscono di capire cosa stia premendo contro la tua schiena, ma il sollievo è tale da schiarirti la mente per qualche attimo — quasi come se Aidan volesse che prestassi acuta attenzione a quanto sta per ordinarti. Non capisci se sia perché la ragione ti stia abbandonando, se la stanchezza stia prendendo il sopravvento o se davvero ci sia qualcun altro vicino a voi, ma la voce di Aidan ha un’intensità diversa, tonante, nella quale riecheggia una furia che è come la furia dell’oceano e del magma e dell’uragano. Aidan parla, ed è come se a parlare fosse la giuria del mondo.

    «Piangi e sanguina, Calliope, piangi e sanguina come Atonement piange e sanguina da quando la bassezza dell’Uomo ne ha dilaniato il futuro! Piangi e sanguina e disperati per l’Ingiustizia commessa,» ti afferra senza cura una spalla, costringendoti a posare la schiena dolorante contro il drappo rosso — costringendoti a guardarla negli occhi mentre ti mostra i canini e scandisce a denti stretti la tua sorte, «Con le tue mani hai sottratto al tuo cuore quanto di più caro avesse. Paga il dazio, avvertine la pressione contro la gola. Sii l'indomita fiamma che estirpa i vili dal suolo di Atonement, paga con esso il prezzo del Furto.»

    Non vi è più alcuna maschera a celare le sue fattezze — il suo volto pallido e deturpato è a pochi centimetri dal tuo, e la profondità con cui si diramano le sue ferite ti lascia inorridita per un momento, mentre boccheggi e tenti di dare un senso alle parole che stai ascoltando. Ti accorgi inoltre distrattamente che è la sua mano, quella che adesso è stretta attorno alla tua spalla, ad essere terribilmente fredda. Dev’essere stato il suo stesso tocco a lenire le tue ferite, dopo averne altresì provocato la cauterizzazione.

    «Combatti per la giustizia, Honos, trova la causa superiore che possa giustificare l'ira che ti anima. E quando avrai deciso da che parte stare,» ti lascia finalmente andare, concedendoti infine di ricadere contro la sabbia che ormai è diventata tuo letto d’infermeria, «Cercami, e io ti troverò.»

    Pronuncia quelle parole con finalità, con la voce che ormai si è ridotta a un sibilo, come se si aspetti che la discussione — che più assomigliava forse a un monologo — sia ormai chiusa.

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    I tagli sulla pelle bruciano di una mancanza effimera — posso sentire che presto sarà il bianco ad animare le mie imperfezioni, la totale mancanza di volontà a muovere le mie membra stanche. Svuotata, come da una forza antica, incisa da un ferro rovente proprio al centro degli occhi: le sue parole sono lava, liquido che corrode e corrompe. Sono una scia dal sapore ferroso, delle insignificanti contrazioni che continuano a tenermi in vita nonostante il diniego, nonostante la resa.

    La sua vicinanza ridesta in me traumi sopiti — mi sembra di averla già vista, ma è come se la vedessi per la prima volta. [...]
    Sono occhi tremendi e venefici quelli piantati nei miei, scrutatori e giudici di una sentenza che ha escluso ogni possibilità di rivalsa. Sono occhi di vetro, di polvere e di ossa, bulimici di un infinito manifesto soltanto a chi ha lungo scavato nell'essenza degli altri per ritrovarvi la vacuità dell'inconsapevolezza — mai prima d'adesso mi sono sentita così piccola, inerme ed indifesa.

    La sua mano — o forse il suo essere teso contro il mio — preme violenta proprio al centro delle scapole. Le narici si allargano, dipanandosi nell'aria come quel fetore tanto familiare: carne purificata nel fuoco, il battesimo dei Colpevoli, il bagno degli Indulgenti. Per qualche secondo non realizzo quanto vicino sia il suo volto al mio, quanto la sua presenza prema e trascini la mia. La ferita, richiudendosi, mi lascia ancora più vuota di prima, tesa sull'orlo del baratro e tra le confortanti braccia della solitudine. Rabbrividisco, mi animo e mi agito: non voglio che mi tocchi, eppure sento di dipendere adesso dalle sue parole in misura conforme al suo tocco algido — neanche immersa nel ghiaccio sentirei il freddo che sento ora, in questo momento che sarà inciso per sempre sino al mio ultimo rantolo su Atonement.

    Eppure le basta poco per zittire la confusione che alberga la mia mente, per accantonare quei dubbi, quelle domande, quelle colpe. Realizzo come non mi stia semplicemente parlando; sta penetrando dentro la barriera mentale che compone il mio essere, ed è come risvegliarsi per la prima volta da un sonno durato fin troppo — mi prende un brivido proprio tra le costole, negli squarci e nelle ferite e nella pelle madida di sangue, sudore e sporco. Nuda lo sono già per la folla inferocita che ha strappato via tutto, la dignità assieme ai vestiti, ma sotto quel Viola luttuoso sento di aver perso anche la pelle, il derma, i muscoli — è alle mie membra che sta parlando. Un click inverecondo prende forma e distoglie il velo appannato dei miei occhi, mai così rossi e vividi come adesso — medito, per quanto lo sforzo del dolore e dell'adrenalina mi consentano, su cosa possa essere il Furto di cui parla. Sembra quasi non parlare la mia stessa lingua, stretta da catene ben più possenti ed opprimenti delle mie.

    Per qualche istante sento il sangue raggelarsi nelle vene — alla vista di quelle profonde cicatrici sussulto, e il respiro si fa sempre più corto. Sempre più agitato. Le cospargono letteralmente la faccia, annidandosi con una tale profondità da non riuscire a vederne l'esatta consistenza, l'esatta origine. Sento un male inimmaginabile asfissiarmi, le spalle sempre più strette sul mantello su cui mi ha letteralmente stesa. Troneggia sul mio corpo come un avvoltoio in attesa di un lauto pasto, ma posso chiaramente sentire l'urgenza con la quale mi parla, con la quale esprime concetti a me alieni — vorrei gridarle di lasciarmi in pace, di smetterla di toccarmi con così tanta insistenza. Il ghiaccio infernale della sua pelle è ossimorico, fonde completamente la mia pelle scura e ricca di efelidi e quel calore corporeo che mi rende figlia della Giustizia — eppure sento di non poterne fare a meno. Non più, dopo averlo provato. Sento l'urgenza di liberarmi, di accarezzarla e di percuoterla, di amarla e di odiarla. Non è forse questo ciò che mi rende ancora umana? Il completo e nullificante desiderio dell'essere in bilico, contesa tra forze a cui non saprei dare un nome? [...]

    Sono stanca. E sono confusa.
    Ma, ancor prima di tutto il resto, sono viva.

    Afferro un suo braccio, stringendo debolmente le dita attorno a quello che sembra essere una muscolatura quasi inesistente. Non posso fare a meno di pensare quanto fragile possa sembrare l'invincibilità, quanto precaria quell'immortalità che permea perfino il suo timbro di voce cavernoso ma diafano — sembra le abbiano strappato via tutto.
    Gli occhi, pesanti macigni, si chiudono poco a poco — da agitato il respiro diventa sempre più pesante, misurato. Non riesco a percepire il suo battito cardiaco ma in qualche modo lo imito, ferma nella stasi di questo luogo che non ha niente di familiare. So bene che non avrò presto la possibilità di tornare a calpestare il suolo di Animosity, e non saprei dirne esattamente il motivo. «Il tuo... nome...»

    L'ultima cosa che riesco a registrare sono i suoi occhi, il cielo al tramonto — non mi resta altro.

    Cal
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    “Ti è stata concessa una seconda possibilità, una seconda vita. Dimostrami che non ho commesso un errore. Dimostrami che ne è valsa la pena.”

    I giorni seguenti trascorrono nel delirio della febbre. Non sai cosa sia accaduto dopo che hai perso i sensi, ma le voci che ogni tanto ti raggiungono dalla strada hanno un accento che non ti è familiare. Sei molto lontana da casa tua — se ancora puoi definirla casa. Le tue ferite sono state trattate e fasciate con la cura che può essere propria solo di un medico, e anche se il tuo corpo ha bisogno di molto riposo per recuperare, nessuna di esse sembra essersi infettata.

    Alcune sono troppo profonde perché anche le attenzioni del dottore più esperto possano impedir loro di lasciare una cicatrice sul tuo corpo. Ricorderai il giorno in cui hai macchiato le tue mani di sangue che non meritava di essere versato fino al tuo ultimo respiro. Ogni qualvolta le tue membra si macchieranno di linfa vitale la tua mente ti costringerà a rivivere quel momento, che si tratti di sangue tuo o altrui. È questa la tua punizione. Il prezzo da pagare.

    Tra le nebbie del dormiveglia scorgi a volte dei visi ignoti, vedi le loro labbra muoversi per formare parole che non comprendi. Di rado ad animare il buio teatro che ti circonda compare anche la familiare maschera d’oro rosso che ti ha accecato nell’Arena; non vedi tuttavia più le fattezze deturpate del volto che essa cela, e visto il tuo stato psicofisico è probabilmente meglio così. Solo le iridi viola fendono brucianti l’oscurità in cui sei scivolata, due fiaccole che nemmeno le coltri dell’incoscienza riescono a soffocare: anche quando nient’altro è nitido, esse lo restano sempre. Neppure in bilico tra la vita e la morte, sul filo del rasoio, è possibile sfuggire al loro impietoso giudizio.

    Il luogo in cui ti trovi è caldo, accogliente; ti senti circondata da ovatta, anche se quello potrebbe essere dovuto al trauma fisico da cui ti stai ancora riprendendo. C’è un leggero profumo di limone. Non senti odori sgradevoli, quindi supponi — con forse una punta di imbarazzo — che qualcuno si sia anche preoccupato di lavarti e mantenerti pulita. La sensazione delle bende e delle coperte che strofinano delicatamente contro la tua pelle ti lascia intuire che il tuo corpo sia nudo.

    Non sai per quanto tempo resti così, sospesa in questo limbo scuro. Hai appena la forza di affondare la testa nel cuscino morbido quando il tuo corpo pretende che cambi posizione. La calma che ti pervade è a te aliena. Dev’essere l’assenza di energie ad averti svuotata di qualsiasi emozione che non siano stanchezza e desiderio di quiete. Forse è quell’anelito di morte che ancora non ti ha abbandonata del tutto, ma prima o poi dovrai accettare che il tuo momento non è ancora arrivato. Non ti è stata ancora concessa la pace ultima.

    Quando finalmente i tuoi sensi tornano ad appartenerti totalmente, ti svegli affamata in un’ampia stanza in penombra. È quasi completamente vuota, e l’unico arredamento è costituito dal letto su cui giaci, un grosso armadio nell’angolo e un tavolo con tre gambe. Una sedia con lo schienale spaccato è rovesciata sul pavimento di cemento. Uno dei muri è in realtà costituito quasi interamente da finestre, ma non lo noti subito poiché pesanti tende viola scuro coprono il vetro e lasciano passare solo pochi raggi di luce. L’armadio contiene lenzuola pulite, un fornellino elettrico, una torcia e due paia di scarpe della tua misura; c’è anche una piccola borsa che custodisce saponi, una spazzola per capelli e uno spazzolino.

    Ti accorgi solo in un secondo momento che le “coperte” che hai spostato quando ti sei alzata non sono in realtà lenzuola: si tratta del mantello rosso di Aidan, ancora macchiato del tuo sangue. Ovviamente sta a te decidere cosa farne, ma è molto caldo e il tessuto sembra estremamente pregiato. Il mantello e le tende sono a tutti gli effetti gli unici colori non neutri all’interno della camera, che per il resto è del tutto anonima.

    Si tratta di una stanza molto ampia, e il fatto che sia spoglia la fa sembrare ancora più grande di quanto già non sia. Non diresti che sia abitata, però non c’è neppure un granello di polvere; i vetri sono lucidi e le tende, per quanto vecchie, non sono logore. Le chiavi della porta che supponi conduca all’esterno sono infilate nella serratura, mentre nella parete opposta si apre sul bagno una seconda porta più bassa. Anche il bagno, per quanto piccolo, sembra essere stato pulito da poco.

    Sul tavolo c’è una scatola su cui poggia una busta bianca chiusa. Puoi restare, almeno per un po’.

    All’interno della scatola (grande all’incirca quanto una valigetta da lavoro) trovi una maglietta, dei pantaloni, biancheria intima, una borraccia piena d’acqua, una mela e dei tramezzini incartati e freschi come se qualcuno li avesse appena lasciati lì (e forse è così). I vestiti sono della tua taglia. C’è un sacchetto di Troni — 160, non hai idea di come facessero a sapere dove conservassi i tuoi risparmi ma a questo punto hai domande molto più importanti da porre ai tuoi salvatori, se così possono essere definiti.

    La bustina bianca contiene un biglietto, poche righe scritte con una grafia allungata e repentina come l’artigliata di una belva feroce. L’inchiostro rosso sembra quasi sangue.

    “Non parlerai di me a nessun altro. Non menzionerai il mio volto né quanto ti ho rivelato, non finché non avrai deciso di schierarti. Il mio nome è Aidan. E dovunque lo pronuncerai, sappi che lo sentirò.”

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    Edited by Thunderskin - 16/2/2022, 23:24
     
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    L'opprimente sensazione dell'assenza di percezione invade completamente il mio corpo, scuotendolo fin dentro le viscere — non ho mai provato con così tanta intensità il singulto della vita che prende forma e si sfalda, tra le dita, tra le mani. L'ultima immagine che registro — no, l'ultimo colore che registro è il suo Viola che fende l'aria, toglie il respiro, mi attira a sé e poi mi vanifica — priva di senso, di scopo.

    I volti che vedo sono i volti di cui ho strappato via l'essenza — la vita stessa. Sono deformi, mi fagocitano, aprono il mio corpo in mille sinestesie diverse, e sospesa mi affanno ad ancorarmi ad un punto fisso. Non riesco a tenermi salda, ma salda è la sua presenza all'interno del mio subconscio — non riesco a dare un nome a ciò che provo, non riesco a capire se ciò che mi trapassa è terrore o sicurezza: non riesco a capire se la Sua presenza è per me vita o morte. I giorni passano, ma non ho ben chiara la percezione di questi. Potrebbero essere mesi, anni, non riesco più a dare consistenza alle flebili albe ed ai pesanti tramonti di cui custodisco la profondità — sento mani di sconosciuti prendersi cura del mio corpo, toccarmi sin dentro la mia parte più intima e non riesco a ribellarmi, non riesco ad aprire bocca. Ad urlare.

    Vorrei strappare via la sensazione fumosa di quella maschera e gettarla ai piedi di quei mostri, di quelle facce, vorrei solo trovare requie e pace e comprendere cosa ne sarà ora della mia vita — vacua, riarsa dall'oceano di niente, completamente restituita senza alcuna richiesta. Un dono, una maledizione? Una seconda possibilità. Stringo i pugni, li serro contro i miei aguzzini, cerco di difendermi facendo ciò che ha guidato fino a questo momento i miei passi: combatto, schivo, combatto. Incasso.

    Apro gli occhi.

    Il cuore è un ammasso di macerie che romita giù dalla montagna dei miei incubi — il petto si muove e non vi è armonia in questo, non vi è un briciolo di bellezza. Il mio corpo è reso pesante dal lungo riposo ed è completamente fasciato. Il profumo di limone entra nelle narici e mi rassicura: qualcuno si è preso cura di me. Non riesco a scorgere, dalla finestra, la durezza paesaggistica di Animosity ma solo quello che sembra un caos disorganizzato di coloro che mai sono fermi (più tardi scoprirò di essere approdata a Covetousness, la mia nuova dimora).

    La stanza è molto ampia, quanto basta ad una persona per vivere dignitosamente — lontane sono le sontuose camere dell'Arena, e quell'odore familiare del Suo corpo premuto al mio. Tocco le mie gote, rigate dall'umida sensazione di debolezza, e strofino via la colpa di quanto accaduto — dovrò convivere con il mio errore, addomesticare la mia Bestia, saggiarne la sua Furia. È strano sentire ancora le sue braccia strette attorno ai miei muscoli, il suo sorriso dolce e premuroso accompagnare ogni mio combattimento. È strano sentirla qui, con me, quando invece è andata via — quando invece l'ho uccisa.

    Ignoro completamente il mobilio, ma è il mio sguardo a tradire una paura diversa, forse un terrore sedimentato al di sotto degli strati di ciò che mi è sempre sembrato di vedere — e che non ho mai visto. Le tende, viola come i suoi occhi, accarezzano il perimetro della stanza e si affacciano sulle ampie vetrate che cingono l'intero monolocale. Le dita si stringono in automatico attorno al mantello, ancora sporco del mio sangue — ancora intriso del mio Peccato. Per qualche motivo lo percepisco come una nota discorde, come un pezzo al di fuori del suo puzzle. Lo porto al naso e provo a sentirne l'odore — pungente, amaro, ma terribilmente caldo.

    Non capisco cosa stia provando, forse una vicinanza che manca, una sicurezza che non ho più — per quanto spettrale, per quanto gelida, ho scorto in Lei il fuoco della Furia, ed il calore di un'anima smarrita. Mi alzo, mettendolo da parte, ripiegato ordinatamente e lasciato sul letto. Ignoro completamente la scatola sul tavolo — non voglio ancora aprirla, non voglio sporgermi oltre la voragine che mi sono costruita attorno disintegrando la mia storia e causando il dolore che sconterò d'ora in avanti.

    Rovisto nell'armadio, apro tutti i cassetti di cui è dotato — finché non trovo ciò che cerco. Un foglio. Una penna. Mi sforzo, e la testa comincia a pulsare, a farmi male — voglio ricordarla, voglio ricordarti, perché è da Lei che la mia storia ricomincia. La penna si muove distrattamente, e la nebbia poco a poco si dirada. Profonde cicatrici, incarnato pallido — niente se non il Suo volto. Deglutisco, stanca. Non avrei comunque le forze di cercarla, di chiedere di Lei, di abbandonarmi ad una ricerca disperata. Risposte, risposte, risposte: ciò che desidero, o ciò che voglio evitare?

    [...]

    Stringo tra le mani la mela, e posso scorgere la buccia rossa piegarsi leggermente sotto la forza dei miei polpastrelli — il succo che ne esce è ambrosia che scorre via e si deposita sul foglio aperto e dispiegato sul tavolo. Aidan. Schiudo le labbra carnose, stanca, tremante. L'ultima cosa che registro è la disperazione che mi attanaglia e mi costringe al suolo, ginocchia premute contro il petto e occhi ostinatamente chiusi — stringo la lettera al petto, finalmente stanca, finalmente libera.

    La morte si sconta vivendo, ed io ne saggio il peso opprimente — la maledizione di esser vivi. «Ti chiamerò.»e farai di me ciò che desideri.

    Cal
    Cal.



    Edited by desenlace. - 19/2/2022, 14:08
     
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    Dance with me and we shall make them bleed.

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    Calliope, hai ottenuto il tuo primo punto Consapevolezza.

    Da questo momento in poi, vedrai la realtà in maniera diversa. Anche all'interno del forum puoi notare qualcosa che prima era celato.

    Preparati ad avere degli incubi molto nitidi, incubi rossi in cui anneghi nel dolore che tu stessa hai generato; sommersa in un lago di sangue che ti tormenta quando chiudi gli occhi. La sua vista sul tuo corpo mentre sei cosciente fa ribollire in te un panico inspiegabile e impossibile da soffocare, accompagnato da un desiderio ancestrale di lavarlo via — come se potessi lavar via la macchia sulla tua anima.
     
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7 replies since 5/2/2022, 03:19   193 views
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