Bound at every limb by my shackles of fear.

[Ophelia x ???]

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    Awak

    Lost in a dying world, I reach for something more.
    I have grown so weary of this lie I live — I've woken now.

    Un percorso.

    Un percorso disegnato nell'asfalto, inciso nella roccia, processato dalla sabbia — occultato dalla inane sinfonia di battiti e respiri e del rantolo che tiene in vita frammenti di un essere smarrito nell'ignoto infinito di Atonement.
    Un percorso — dei passi distratti e la solerzia di uno sguardo, un percorso che sono cicatrici incise nell'anima e un volto straziato dall'ira e dalla vendetta. Una tortura appigliata nella più intima sacralità, un viola bruciante come le fiamme divampate dalla resa.
    Un percorso — quello non avrebbe potuto condurla in nessun luogo se non nell'aprassia di Languor, nella neve e nel gelo e nel ghiaccio dell'abbandono.

    Un percorso. [...]

    Non avrebbe saputo quantificare i giorni trascorsi nella paura e nel terrore di essere scovata — non esisteva più alcun luogo sicuro per lei, e anche se nascosta nei rifugi naturalmente scavati nella roccia si sentiva osservata, penetrata da parte a parte. Violentata.
    Si sentiva una vigliacca, una codarda — ma più di ogni altra cosa si sentiva l'essere più debole di Atonement. Aveva strisciato nei posti più sicuri, si era sfamata di cibo trafugato dalle bisacce di altri esploratori, si era nascosta e aveva forse desiderato non essere mai più ritrovata da nessuno. Nessuna di queste pulsioni di angoscia e distruzione avevano però debellato il fuoco fatuo della rabbia e della vendetta — l'avrebbe trovata, prima o poi. Avrebbe affondato le fauci in quel collo sottile e pallido, avrebbe altresì goduto nel vederla soggiogata dall'angoscia che tanto amava infliggere.
    Erano quelli i pensieri che riuscivano a tenerla vigile e attenta, erano in fondo quelli che ripeteva come un mantra — un'ossessione. Ad ogni piccolo singulto si girava, all'erta e pronta a scappare, ancora — di nuovo. Sognava di ghigni ferali, di dita lunghe come artigli e di fauci fameliche agganciate alla dimensione terrena del suo dolore. Sognava lunghi capelli, sognava di una maschera che continuava a inseguirla, che continuava a deprivarla di ogni speranza.

    Sognava, si risvegliava — sudata, esausta. Vomitava tutto ciò di cui si era nutrita nelle ore precedenti, piangeva ininterrottamente e grattava il suo ventre sino a farlo sanguinare. La maglia, zuppa di sangue e incrostata di siero, era come una seconda pelle che non riusciva più a staccarsi di dosso — era un miscuglio di tessuto, carne e rimorsi. La perfetta sintesi del male che custodiva nel fondale dei suoi occhi stanchi e dorati. Non aveva alcuna memoria di ciò che era accaduto dopo l'esplosione, non aveva alcun ricordo se non quello dei granelli di sabbia tra gli ingranaggi della sua protesi. Riusciva a muoverla molto faticosamente, bloccata forse dalla sporcizia e dal brusco cambio di temperatura.

    Ophelia odiava la sabbia. Aveva imparato ad averne paura — ne odiava in particolare il calore e la granulosità che riuscivano a diventare vetro sulle sue ferite aperte. Odiava la sabbia quando, durante una tempesta, i piccoli frammenti entravano in ogni suo orifizio difatti soffocandola ma senza mai ucciderla. Odiava in effetti anche l'impossibilità di raggiungere la morte, di meritarla, di farsi avvolgere da quest'ultima e di fermare le Urla. Dopotutto, mantenerla in vita era la punizione più grande che il Segugio potesse infliggerle.

    Odiava la sabbia, e per questo motivo la vista della neve e la consistenza del gelo sulla punta delle dita le aveva restituito pace — non era per niente vestita in modo adeguato per quelle temperature tanto rigide, ma questo non sembrava preoccuparla minimamente. Il gelo accompagnava i suoi deliri, raffreddava la voglia che aveva di esplodere in mille pezzi e di distruggere tutto ciò che era stata fino a quel momento — prigioniera, schiava.

    Si era insediata a Languor, tra i Sognatori. Aveva preso tutto ciò che le era stato offerto — cibo, alcune coperte, la possibilità di dormire in quello che sembrava un rifugio, o forse un appartamento condiviso, o forse una casa. O forse nulla che le avrebbe restituito pace. Aveva consumato, aveva preso le sembianze di parassita — ma non aveva ancora aperto bocca con nessuno. Le sue mani tremavano e i suoi polpastrelli, come acido, disegnavano più e più volte l'oggetto della sua fuga, del suo terrore — della sua rabbia. Mangiava — e il suo pensiero era lì, con lei, in quella prigione. In quella ossessione.
    Beveva, fumava, detergeva il suo corpo — e il pensiero era ancora lì, fisso, bloccato. Inanimato.
    La ferita al ventre sembrava aver scavato ben più che semplice carne, aveva disegnato percorsi di rovi e spine nel quale trattenere ogni emozione, ogni lacrima. Ogni grido.

    E ora solitaria, seduta su un conglomerato di ferro e devastazione avrebbe atteso — un altro giorno. Un altro incubo. Un altro risveglio.

     
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    Aveva faticosamente trasportato il corpo gelato, trascinandosi sulle strade scivolose e imprecando lungo tutto il tragitto, con lo scricchiolio sinistro del metallo ad accompagnare ogni pesante passo. Era sgusciata, con solo la sua ombra tra le ombre a farle da vedetta, tra i vicoli addormentati, dimenticati, ed era caduta in ginocchio, sfinita, una volta oltrepassata la soglia sicura.

    Non era previsto. A dirla tutta, non era neanche permesso. Azioni del genere avrebbero potuto compromettere la loro posizione, o peggio — ma Eirian era pronta ad assumersi le responsabilità che ne sarebbero conseguite.

    Sapeva solo che quella macchia scura nella neve, che poco più era di una carcassa, le aveva trasmesso un’inquietudine che solo l’influenza di una persona su Atonement avrebbe potuto generare. Inquietudine, e profonda rabbia.

    Ma c’era poco tempo per esitare. Depositò con più cura possibile — quanto le permettessero le braccia intorpidite dal peso e dal freddo — il corpo inerte e bagnato sul pavimento, e corse verso la stufa nell’angolo, quasi scivolando a metà percorso nella fretta di raggiungerla. Nella manciata di secondi necessari al pannello per riscaldarsi, Eirian si sfilò gli scarponcini ancora incrostati di neve e ghiaccio e recuperò uno dei futon arrotolati nell’armadio, distendendolo di fronte alla stufa.

    Si morse il labbro spaccato e passò una mano tra gli umidi capelli rossi, poi con un sospiro si riavvicinò alla sconosciuta, sollevandola nuovamente per depositarla sulla superficie morbida. Senza troppe cerimonie iniziò quindi a rimuoverle i vestiti, ormai quasi appiccicati alla pelle pallida, osservando con non poca preoccupazione le giunture della protesi che sostituiva il suo braccio. Le protesi standardizzate solitamente erano adatte a tutte le temperature, ma richiedevano comunque manutenzione accurata per impedire alla sabbia e ai detriti di danneggiarle.

    Quella che aveva sotto gli occhi non aveva visto manutenzione da tempo, accurata o meno che fosse.

    -


    Tra il sonno e la veglia, inconsapevole dello scorrere del giorno e della notte, febbricitante, Ophelia riuscì a cogliere solo immagini fugaci e stralci di conversazioni che, con tutta probabilità, non avrebbe comunque potuto comprendere appieno.

    Chiunque l’avesse sottratta dalla gelida morsa si stava prendendo cura di lei, di questo aveva la certezza. D’altronde, non era morta di freddo, di fame o di sete; era nuda, ma coperta da lenzuola pulite, e le ferite non si erano infettate, quindi qualcuno si era occupato della sua igiene; quando tremante sentiva la fronte madida di sudore, assalita da immagini che avrebbero potuto essere incubi o semplici ricordi, c’era qualcuno ad asciugarle il viso con delicatezza.

    Altre persone sapevano che era sopravvissuta. Aveva distinto voci sommesse esprimere disappunto — «Sai come la penso sul raccogliere i disperati dalla strada» — e comprensione — «C’è un motivo se non siamo come loro, ed è che nessuno di noi, nessuno, l’avrebbe mai lasciata morire là fuori.»

    Ma più di tutte, quella che le era rimasta impressa, e che aveva sentito più spesso, era stata quella che aveva detto, spezzata da lacrime iraconde, «Non capisci? Non capisci chi l’ha ridotta così? Non capisci che è stata lei

    -


    Eirian si prese cura della sconosciuta come meglio poté, chiedendo aiuto a chi sapesse più di lei di protesi per rimediare alla disattenzione che l’aveva vista rovinarsi, e anche quando la donna tornò a una temperatura corporea salutare e fu in grado di sedersi e mangiare da sola, non fece alcuna pressione: avrebbe parlato quando sarebbe stata pronta, se mai lo fosse stata.

    Soltanto, si presentò, senza aspettarsi né pretendere alcuna risposta.

    «Io sono Eirian, e voglio aiutarti.»
     
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    Un lungo sonno.

    L'assenza di contatto col reale — la quiete tramutata in tempesta, il dolore ancora vivido e fresco della lama strisciata sulla pelle del tragico presente. Aveva stretto tra le mani la sua fragilità, le aveva ordinato di essere la schiera del male contro l'ineluttabilità della fine — aveva preteso di esser lasciata libera di ricongiungersi al primo vagito di quel mondo, di spegnersi illibata e rarefatta. Di andarsene adornata dai refoli di vento, dalla soffice consistenza della neve — aveva chiesto, e non era stata infine ascoltata, nuovamente pretesa a gran voce da volontà avulse dal suo libero arbitrio.

    Un lungo sonno.

    Tra i cristalli dei suoi incubi e nella rigidità del suo dolore non riusciva a registrare altro se non l'onda sistemica di un pianto, di lacrime rabbiose così gemelle alle sue grida, ai suoi strazi. Nell'estrema solitudine del coma e del distacco dalla vita, Ophelia non si era sentita abbandonata neanche per un istante. Gli occhi nascosti dietro il sipario delle palpebre, due spasmi indistinti nella brulicante folla giunta al suo capezzale, vorticavano furiosi tesi all'ascolto di quel briciolo di umanità di cui era ormai fortemente disabituata — ascoltava il contenuto di quelle confessioni imponendosi di non dimenticare quell'unica frequenza che riusciva a metterla in salvo dal viola funesto e violento. Aveva imparato a comprenderne il significato, forse dopo la prima notte — o la seconda, o la quinta. Quello era un pianto di compassione, certo — ma era anche un pianto di condivisione. Lo stesso Male.

    Un lungo sonno.

    Aveva freddo. Di un freddo primordiale, primitivo, di un freddo che voleva ancorarsi alla flebile speranza della sopravvivenza — di un freddo che avrebbe potuto dissiparsi solo attraverso il vapore del sangue del carnefice. L'aveva sognata più volte — ogni volta sopra di lei, dentro di lei, una consuetudine tramutata in abitudine, tramutata in normalità. Ogni volta con il pugno stretto attorno alle sue viscere e alla sua carne — ogni volta con un ghigno ferale impresso nei lineamenti selvaggi e distorti. E ogni volta, inconsapevolmente, aveva cercato rifugio nel contatto innocuo di mani aliene sul suo corpo, sulla fronte non più madida di sudore e sul volto rigato dalle lacrime. Ogni volta, aveva cercato rifugio nella banale delicatezza di una carezza — e ogni volta, patetica, si era raggomitolata sul fianco, invasa dalla vergogna di sentirsi esposta nel corpo quanto nella mente.

    [...]

    Aprì gli occhi di scatto, nervosa — tornò a galla annaspando, premendo la schiena contro la superficie morbida del futon. La prima cosa che riuscì a registrare fu la capacità di muovere la protesi, finalmente ripulita dalla sabbia della fuga e dalla sporcizia della prigionia. Le sembrò di aver riacquisito dignità, di poter essere nuovamente funzionante — non più uno scarto da gettare contro l'angolo di una cella vuota e fredda.
    Sentì nuovamente quella voce, ma rimase immobile a fissare il soffitto e a disegnare su di esso con l'immaginazione paesaggi che non avrebbe mai più rivisto — Eirian, il nome della sua salvatrice.
    Il volto di Ophelia non tradì alcuna emozione se non l'assoluta mancanza d'empatia — se non un distacco imperturbabile dalla realtà.

    La prima volta che udì quella frase nella dimensione concreta del risveglio si rese conto di dover attribuire a quest'ultima la verità — il peso insostenibile della sua debolezza, il bisogno che l'aveva condotta ad essere lavata, sfamata, sostenuta. Eirian era il testamento vivente che tutto ciò che aveva vissuto fino a quel momento corrispondesse al reale — la prigionia, le torture, le violenze, gli stenti.

    Quel giorno, Ophelia evocò ogni sua energia residua per scaraventare gli oggetti che aveva attorno a sé in un vortice di rabbia e di iraconda follia — senza muoversi ma soltanto sfruttando il suo potere di muovere le correnti gravitazionali, inondò di frammenti di caos e distruzione la piccola stanza. Distrusse bicchieri, piatti, ciotole ricolme di cibo. Eppure, intonsa, Eirian non fu mai colpita — neanche lontanamente sfiorata — dalla dimostrazione tangibile di quel dolore quella violenza. Come un rifugio sicuro designato durante una tempesta, Eirian fu la spettatrice di quel macabro spettacolo, il risultato di quell'unico essere che aveva profanato ogni suo impulso a reagire.

    Ophelia non parlò con Eirian neanche il secondo giorno dopo il suo risveglio. E neanche dopo il terzo.

    Eppure, inspiegabilmente, era sempre lì. A volte in silenzio, a volte agitata, altre volte nelle sue immediate prossimità — più spesso sull'uscio della porta, attenta e scrutinatrice. Fu Ophelia a cedere. Sentiva forte il desiderio di piangere — e lo aveva fatto, pensando di essere sola, illudendosi di essere inascoltata. Ebbe il coraggio di pensare a se stessa come vittima, ebbe il coraggio di darsi tregua. Ebbe il coraggio di darsi una seconda possibilità.

    Ebbe il coraggio di parlare con Eirian, all'alba del quarto giorno. [...]

    Osservò la folta chioma rossa, rossa come il sangue che aveva versato — rossa come i mantelli dei suoi carnefici. Rossa, ma di un rosso diverso. Gratitudine? Sottomissione? Riconoscenza? Niente di tutto questo — gli occhi di Ophelia stavano scavando in quelli di Eirian intessendo trame e percorsi che avrebbero potuto comprendere soltanto loro due.

    «Come pensi di riuscirci?»

     
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    Si era davvero superata con quella zuppa, modestia a parte; il fornello che avevano a disposizione nel rifugio non era proprio al massimo dell’efficienza, però gli ingredienti erano buoni e l’impegno ce l’aveva messo tutto.

    Aveva preso l’abitudine di mangiare seduta su un cuscino, a terra, ai piedi del materasso. All’inizio era per assicurarsi di avere facile accesso alla sua paziente, che ancora stava recuperando le forze; con il trascorrere dei giorni, però semplicemente iniziò a venirle naturale accomodarsi lì, con le spalle rivolte alle gambe della sconosciuta. Non rivolgeva spesso lo sguardo nella sua direzione, si limitava a porgerle il piatto e a riprenderlo una volta sentito il rumore delle posate contro il fondo ripulito.

    La donna si era per la prima volta sollevata contro il suo cuscino nel profondo della notte — non che ci fossero finestre o spiragli a indicare la posizione degli astri nella volta celeste — ed Eirian le aveva offerto la colazione con premura, tenendola sotto controllo qualora le forze la riabbandonassero nuovamente. La colazione, per l’esattezza, consisteva in ciò che era avanzato della cena di quella sera, che seppur semplice era, almeno, ancora caldo.

    Le ore di veglia, lucide allora, erano comunque ridotte: il corpo della sconosciuta era ancora molto indebolito, e dormiva a lungo durante il giorno e parte della notte. Restò muta per le prime notti, ed Eirian in silenzio a sua volta, e la seconda spontaneamente adattò l’orario della sua cena a quello della colazione della donna.

    Stava quindi mangiando in silenzio la sua zuppa, fiera del frutto delle sue fatiche, quando una voce roca alla sua destra la fece sobbalzare, rischiando quasi di farle rovesciare il contenuto bollente della sua ciotola sulle gambe incrociate. Fortunatamente, la sua mano fu abbastanza ferma da evitare il disastro, e quando il liquido smise di ondulare minacciosamente, Eirian si voltò verso l’origine del suono, abbozzando un sorriso.

    «Se intendi “come pensi di riuscire a mangiare questa porzione,” ti assicuro che non avrò alcuna difficoltà a farla sparire in pochi minuti, e anzi stavo proprio valutando di fare il bis. Se invece ti riferisci ad altro, mi dispiace, ma non ti seguo,» disse giovialmente, pronta a dare dimostrazione delle sue doti da divoratrice dopo aver dato fondo a quelle di cuoca. La sua espressione tornò un po’ più seria, poi, e con una punta di preoccupazione nella voce domandò: «Come ti senti? Hai freddo?»

    La stufa nell’angolo era già accesa, ma c’era ancora qualche coperta extra in uno degli armadietti; la zuppa, inoltre, era ancora fumante, pronta a riscaldare anche lo stomaco più gelido. Come a volerlo sottintendere — e anche, a dire il vero, per non aspettare che si raffreddasse troppo — Eirian se ne riempì il cucchiaio e vi soffiò sopra delicatamente, pronta a riprendere il pasto ora che c’era un po’ di conversazione a ravvivarlo.

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    Un ricordo.

    Aveva la guancia premuta contro il pavimento freddo della cella — trascorreva il tempo contando i secondi, scanditi dal gocciolare ritmico della perdita che sembrava osservarla minacciosa dal soffitto. La bacinella posta esattamente al di sotto del foro veniva svuotata ogni due giorni, e ogni volta da una persona diversa. Una persona silenziosa — una figura stagliata contro il silenzio innaturale che circondava Ophelia, ogni volta decorata da passi diversi. A volte più leggeri — una donna esile, altre volti più pesanti — una guerriera robusta, delle volte timidi e affrettati — una giovane recluta. Aveva smesso di esercitare l'indegna attività del dialogo. Dopo la prima settimana senza risposta, l'Athèleian aveva capito di essere sola e che quella sarebbe stata la sua punizione.

    Un ricordo.

    Poteva percepire la sanità mentale come un'estensione concreta delle sue membra stanche. A volte immaginava di essere lontana, in luoghi che mai avrebbe visto — in luoghi che mai avrebbe avuto l'occasione di visitare personalmente. Aveva provato ad immaginare gli immensi deserti dell'Alto, ma non era sicura esistessero davvero. Non era sicura neanche della sua stessa presenza su Atonement — non conosceva altro che quel perimetro e quelle maschere, e quei mantelli, e quel rosso. La sensazione di solitudine si era presto tramutata in rabbia, poi in cieca rassegnazione. Non sentiva neanche più il fastidioso e persistente gocciolare del soffitto. Non sentiva neanche più la sensazione del suo essere e la consistenza del suo respiro — non sapeva di essere viva, ma di sicuro morta non lo era. Non ancora.

    Un ricordo.

    Accadde la prima volta per caso, come una notizia che non ti saresti aspettato di ricevere — non in quel modo. Aveva il volto rigato da un pianto antico, e quella stessa umidità le aveva perfino seccato la pelle, ora quasi squamata dal dolore della non esistenza. Il corpo le doleva, eppure non era stata picchiata. Nei suoi ricordi solo un viola vivido e funesto, solo l'assenza di iride e la compenetrante presenza della dominanza — un gioco che non avrebbe mai e poi mai vinto, tanto profonda era la convinzione di non poter sopravvivere neanche un giorno oltre in quella prigione di sensi. Quella notte aveva sognato di incubi neri come la pece e di artigli stretti attorno alla gola. Aveva sognato la concretezza della paura e la fisionomia dei suoi aguzzini — no. Aveva soltanto sognato lei, il suo ghigno ferale, la sua composta immensità — i confini infiniti del suo essere, dapprima briciola e poi sconfinato oceano. Aveva sognato e aveva avuto paura — tremava, Ophelia, tremava con le gambe strette al petto e il corpo raggomitolato contro l'angolo più angusto dei suoi metri quadri, quelli in cui aveva imparato a sopravvivere.

    Un ricordo.

    Il primo dei suoi ospiti fu un certo Liam. Non si rese conto del suo vivido sgusciare dalle pareti della sua prigione — non seppe neanche dire da dove fosse effettivamente arrivato. Ne poteva riconoscere soltanto una sagoma, un'Ombra tra le ombre, un essere insignificante come lei in attesa di un giudizio. Scoprì presto che Liam il suo giudizio lo aveva già avuto — era l'Ombra di un altro prigioniero che riposava proprio oltre la cella di Ophelia. Pensava di essere impazzita. Pensava di essere folle, di aver finalmente oltrepassato l'ultimo tragitto e di potersi presto riconciliare ai Custodi. Ma quali Custodi? Ophelia non era stata benedetta da nessuno di loro, e la prospettiva dell'eterno oblio la spaventava ancor di più. Ma aveva forse trovato il modo di evadere — e non le importava poi molto altro. Aveva trovato qualcuno con cui parlare senza parlare, qualcuno con cui condividere il peso opprimente del silenzio e la profondità angusta del terrore di incrociare nuovamente quel viola. Aveva trovato un amico. No, Ophelia ne aveva trovati una moltitudine — ogni giorno sempre più numerosi, ogni giorno sempre più accalcati nel minuscolo spazio che era l'unica prova del suo passaggio su Atonement.

    Un ricordo.

    Non lo aveva mai riferito a nessuno — eppure le domande si erano fatte più intense, nel numero e negli intenti. Ophelia sentiva di doverlo conservare come il più prezioso dei segreti. Non lo aveva menzionato neanche a lei, sebbene non avesse creduto mai ad una sola delle sue parole durante uno dei loro incontri. Ophelia era sola al mondo — e mai avrebbe capito perché nessuno era in grado di amarla, perché nessuno volesse davvero custodire la sua anima e prendersene cura. Aveva smesso di sperare di uscire viva da quelle quattro mura — aveva smesso di cercare il calore nella prossimità di un corpo, e aveva compreso fino in fondo che il solo motivo per il quale continuava a trascinarsi oltre ogni alba e tramonto era quella peculiare capacità che non sapeva di avere. Era quello che di più simile poteva accostare al concetto di amore.

    [...]

    Restò ferma ad osservare quel sorriso forse per troppi secondi — accigliò lo sguardo, strinse le labbra, tremò silenziosa e spaventata e cercò di mettere quanta più distanza possibile tra sé e quella strana sensazione proprio alla bocca dello stomaco. Eirian era ancora, per Ophelia, uno splendido enigma.

    Non vi era motivazione alcuna per quella presenza costante al suo capezzale — e nessuna delle spiegazioni che aveva partorito erano abbastanza convincenti da farla scappare e rendere conto fosse tutta una trappola, un gioco perverso dei suoi aguzzini. Eppure, Ophelia era guarita e sarebbe potuta sparire così com'era giunta, nel silenzio e nell'anonimato. Ma non lo aveva fatto — non ancora. Per giorni, Eirian aveva mandato via tutti gli altri, volti spaesati e pregni di emozioni diverse. Accettazione, rifiuto, pietà, compassione, rabbia, cieca perdizione. Era come una prigione — una prigione molto diversa da quella che aveva conosciuto, ma pur sempre una prigione. L'aveva sfamata — con cura le aveva preparato ogni volta un pasto caldo, e non aveva mai lasciato che lo consumasse da sola. Poteva percepirla in ogni piccola parte di sé — erano rari i momenti in cui Ophelia poteva dire di essere realmente sola, meno rari i momenti in cui cercava Eirian con lo sguardo, fosse solo per ancorarsi alla realtà o per non ammettere a se stessa che era il calore di un altro essere umano l'antidoto che stava cercando.

    Era come una prova di resistenza.

    Una prova di resistenza che, tuttavia, non prevedeva alcun altro partecipante oltre Ophelia — l'altra donna sembrava essere completamente a suo agio in sua presenza, e questo era quello che forse la spaventava di più. Perché le uniche certezze dell'Athèleian erano che nessuno al mondo poteva farle del bene, e che nessuno al mondo poteva avere interesse nel mantenerla in vita. Quanto è profonda la ferita di una singola anima?

    Voleva parlarle. Voleva in parte restituirle quella cura, ma non aveva gli strumenti. Era un fiore sbocciato nel sangue e alimentato dalla polvere — come avrebbe potuto spogliarsi dei suoi difetti e delle strutture molecolari della sua inadeguatezza? Era capace solo e soltanto di provare rabbia — antica, perversa, profonda. E vendetta — piena, sensata, bollente. Avrebbe voluto dirle che la zuppa era buonissima — che per lei il cibo non aveva mai avuto nessun sapore e che adesso invece poteva distinguerli vividamente. Avrebbe voluto scusarsi per aver sporcato la stanza — ma non riusciva a fare altro che guardarsi attorno per poi guardarla negli occhi, forse un maldestro tentativo di generare contatto.

    Avrebbe voluto dirle che no, non aveva freddo — ma che sentiva comunque il gelo scorrerle nelle vene. Avrebbe voluto — avrebbe potuto.

    Si limitò a consumare il pasto e, a metà di quest'ultimo, aveva deciso di poggiare — questa volta con delicatezza — la ciotola scheggiata sul grembo, un tentativo metaforico di far fuoriuscire le parole. «Non ho freddo, non più.» Fu un sussurro, un semplice transitare di aria nei polmoni — no, non aveva freddo. Ma tremava. Le venne spontaneo guardare oltre. Concesse ad Eirian la possibilità di ascoltare, ed ebbe cura di ripetere ad alta voce ciò che la sua mente stava già comunicando in un contatto sacro e profondo1. Un amico, un ricordo. «Perché sei così silenziosa?» fu spontaneo. Fu improvviso. Fu il concretizzarsi dalla propria disabilità a socializzare con i suoi simili — d'altronde, Ophelia non aveva fatto altro che vivere i suoi ultimi anni con le ombre. «Io sono Ophelia.» E lo disse osservando per qualche istante anche Eirian, prima di ritirare quella vista — si sentì scottata dalla possibilità di aver superato un limite. Come un animale in gabbia strinse le mani attorno alla ciotola. «E non sono brava...» deglutì, fermandosi. Eirian aveva visto il suo corpo martoriato — l'aveva quasi costretta a venire allo scoperto, e Ophelia non riusciva assolutamente ad interpretare la bestia immonda che era. Non riusciva ad essere la versione peggiore di sé — che fino a quel momento pensava coincidesse anche con l'unica versione possibile. L'aveva lavata. L'aveva sfamata. Le aveva fatto compagnia — aveva provato, con tutte le sue forze, a cancellare quel viola, quell'ossessione. Quella prigione — quel gocciolare frenetico provenire dal soffitto e quel depositarsi passivo nella bacinella. Ma nessuno sarebbe giunto a svuotarla — perché per la prima volta, Ophelia si era resa conto di non essere più prigioniera di nessuno. «Non sono brava a chiedere scusa, e non sono brava a dire grazie. In effetti, non credo di esserne in grado...»

    CITAZIONE
    Attivazione Dominio: Prober, Comprendere.

    COMPRENDERE ◊ — I am the Prober.
    Mentire a un Siphoner può rivelarsi un'impresa ardua e controproducente, poiché alcuni di essi sono in grado di persuadere l'ombra del proprio interlocutore a rivelare le sue vere intenzioni. Non tutti sono in grado di rivelare la verità tramite questo metodo, ma anche gli iniziati alla disciplina della Comprensione saranno in grado di sapere se la persona con cui stanno dialogando è sincera o ha qualcosa da nascondere, perché le ombre sono incapaci di mentire. Più in generale, questo tipo di Siphoner è in grado di parlare con le ombre senza aprir bocca, potendo sostenere con esse intere conversazioni senza che il proprietario se ne accorga.

    ✦✧✧ Novice — il Siphoner saprà immediatamente se il suo interlocutore sta mentendo. Si applica a una sola persona alla volta. Sarà anche in grado di porre domande semplici alle ombre degli individui, che potranno scegliere di rispondervi o di restare in silenzio.1

    Io lo so che non funziona proprio così, ma Ophelia è una frana e questo è l'unico modo.



    Edited by desenlace. - 17/2/2023, 01:52
     
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    Due risposte vennero espresse contemporaneamente, perché due volte la domanda era stata posta — due volte per due diverse interlocutrici.

    «Aspettavo di sentire la tua voce,» fu la prima, semplice, accompagnata dallo stesso sorriso che Eirian le aveva riservato al suo risveglio. Il tono era un po’ roco — colpa della zuppa calda che aveva intorpidito le corde vocali — ma le parole sembravano sincere, nonostante la scintilla di malinconia che restituiva una punta di amarezza agli angoli della sua bocca.

    Sembravano, però. Perché l’ombra di Eirian, apparentemente, serbava una battuta differente.

    «Perché non sono in molti a potermi udire,» la voce era diversa, più dolce, ma non accarezzava le orecchie; sembrava posarsi, dolcemente come neve, direttamente nella psiche di Ophelia. E se già di per sé la cosa non fosse abbastanza strana, l’ombra continuò — e anzi, non si limitò solo a parlare.

    «Né a rivolgermi la parola, a dirla tutta,» sembrava quasi divertita, e, con estrema disinvoltura, si mosse come se avesse volontà propria, avvicinandosi a Eirian. Sollevò una mano — una mano buia, sottile come un foglio di carta, eppure cosciente — a coprirsi le labbra, come se fosse un gioco da bambini; piuttosto che essere proiettata sul materasso e sul pavimento, come pochi istanti prima, avvolgeva la schiena e le spalle della donna come una coperta dalla più evanescente filigrana, con la bocca all’altezza del suo orecchio.

    Eirian inclinò la testa come se stesse davvero ascoltando — come se ciò che stava accadendo fosse totalmente nella norma — e dopo un momento annuì, l’espressione sul suo volto un po’ più seria e in parte coperta dalle ciocche scarlatte che si erano ribellate ai suoi movimenti.

    «Non chiedermi scusa, Ophelia,» disse, rassicurante, rompendo quel breve silenzio dapprima a voce bassa, e poi rinfrancandosi: «E non ringraziarmi. Ho fatto ciò che chiunque sia dotato di coscienza avrebbe fatto al mio posto. Mi dispiace solo di non averti trovata prima — avrei potuto risparmiarti un po’ di sofferenza.»

    Non fece menzione dei peculiari movimenti della sua ombra, che adesso le cingeva la vita con le braccia come se ci fosse una persona seduta dietro di lei. Si strofinò tuttavia un po’ il fianco sinistro con la mano destra, e chiuse gli occhi, abbandonando il cucchiaio contro il fondo della ciotola ormai pressoché vuota, quasi come a voler… quasi come a voler accarezzare le dita dell’ombra che riposava, beata, con la testa poggiata sulla sua spalla.

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    Una sorpresa.

    Ophelia restò per qualche istante immobile nel suo silenzio — in una contemplazione quasi mistica, con gli occhi color dell'oro sbarrati e le pupille appena dilatate. Aveva chiaramente udito una voce diversa da quella di Eirian ad un livello ben più profondo di quello uditivo. Sentì chiaramente qualcosa scivolare leggero ai margini dei suoi sensi, nel pulviscolo delle sue sensazioni, nell'abisso della sua intimità ad una frequenza tale da destabilizzarla — era la sua ombra, e di questo non aveva alcun dubbio. Ma come poteva essere anche solo lontanamente possibile?

    Una sorpresa.

    La vide chiaramente muoversi di vita propria, appropriarsi dello spazio con una sicurezza tale da poter essere soltanto ammirata. La Ricercatrice restò tesa all'ascolto, cercando di assorbire parte di quel miracolo — perché solo di questo poteva trattarsi, vero? Schiuse lievemente le labbra e inclinò la testa — in uno dei rari momenti in cui poteva sentirsi al sicuro manifestando la sua curiosità, la sua sete di sapere e la sua necessità di conoscenza — quella che l'aveva resa prigioniera di aguzzini e della Bestia che traumatizzava i suoi sogni tramutandoli in vividi incubi. Si lasciò andare, forse per la prima volta da quando quella sconosciuta — Eirian — l'aveva tratta in salvo. Si sentì fagocitata in un bozzolo di calda comprensione. Si illuse, quasi, di sentirsi affine a quell'ombra — e a tutte le altre che aveva conosciuto. Ma questa era diversa, era più simile ad un essere umano reale che a un abitante del regno delle Ombre. Era così?

    Una sorpresa.

    Arrossì lievemente — le sue gote ben presto si accalorarono, testimoni di un momento di profonda devozione e forse di quello che avrebbe fatto fatica a metabolizzare e a comprendere. Ne aveva sentito parlare nei lievi sussurri provenienti dalle celle vicine alla sua, nel leggero rantolare e nei singhiozzi rivolti agli amanti perduti — aveva udito frasi ricche di una passione mai sopita, urla e confessioni di un amore eterno, eppure eterni sarebbero stati soltanto i supplizi e le torture e le percosse e le deprivazioni. Tutto avrebbe incontrato la fine — eppure coloro che sapevano d'amare e coloro che erano amati sembravano morire di una morte diversa; rasserenati da un rosso diverso da quello dei mantelli.

    Era amore.

    O forse una versione alternativa della realtà — ma poté giurare fosse amore. Perché forse i redeemed che aveva conosciuto non avevano avuto la delicatezza e la propensione all'ascolto, non come Ophelia. Le ombre erano il suo mondo — tutto ciò che aveva rimpolpato in lei il desiderio di vita, il desiderio di sospingersi verso un'altra alba — verso un altro giorno. Eppure, il modo in cui quell'entità si era adagiata attorno Eirian, come una coltre, una protezione verso l'esterno — c'era qualcosa, come una poesia silenziosa, che aleggiava tra le due. Qualcosa di così intenso da farle abbassare lo sguardo, forse un po' malinconica — forse un po' ferita, forse finalmente esposta. Era sicuramente amore, o un affetto così profondo da essere figlio delle stesse ferite. Era tutto così familiare — il modo che avevano di sfiorarsi pur senza farlo davvero, di parlarsi pur senza comunicare, di vivere pur recitando un copione in una tragedia quotidiana. Quel possesso sancito da braccia strette attorno ai fianchi, e quelle ciocche ribelli color del fuoco che sfuggivano al controllo del razionale per incontrare una quieta tempesta.

    Ricordò labbra pallide premute con rabbia contro l'orecchio, parole taglienti e velenose come aculei infilati a forza dentro il petto a scavare una gabbia toracica ormai svuotata d'ogni organo. Non sarai mai amata, Ophelia — le ripeteva la Bestia, mentre il suo Viola creava solchi irreparabili. Non conoscerai mai il calore di un corpo, e stringeva dita invisibili contro il collo e riempiva di sabbia le cavità orali.
    Portò l'arto meccanico al fianco e cominciò a grattare — boccheggiò per qualche istante cercando di non sentire più. Di non sentirla.

    Tornò alla realtà dopo qualche istante — fu un cambio così repentino che solo un occhio attento avrebbe potuto notarlo. Non smise di grattarsi, di pizzicare la pelle. Ma si ricompose — di nuovo stoica, di nuovo impassibile poiché incapace di decodificare alcun altro sentimento. Voleva sapere — aveva il diritto di sapere. «Perché la tua ombra sembra in realtà l'ombra di un'altra persona? Dov'è la tua? E quindi dov'è il suo corpo?» fu diretta e fu lucida — e sicuramente perspicace. Perché Ophelia era questo: intelligente, arguta, cinica, violenta, lapidaria. Definitiva. Non c'era bisogno d'esser altro. Non aveva mai visto prima d'ora casi di ombre senzienti — quasi dotate di una personalità diversa da quella dell'ospite. Dopotutto, le ombre non erano continuazioni della volontà d'ogni persona? Era questa la sua teoria, la sua versione. Nel caso di Eirian, sembravano realmente due entità distinte — ma allora dov'era la rispettiva metà d'ognuna?

    Non commentò le parole di Eirian, ma non giudicò tuttavia la sua compassione. Non sembrava impietosita — c'era quasi un rispetto morboso che le riservava con il suo sguardo, quasi una sottile comprensione, come una condivisione. Ma non era abbastanza da poter sfondare i muri alzati con tanta pazienza attorno a sé, a protezione delle sue paure — del suo timore d'esser nuovamente abusata. «Apprezzo molto ciò che hai fatto per me e proverò in qualche modo a ripagarti.» Fu pragmatica — era spaventata. E forse infastidita. O forse nessuna delle due cose. «Voglio solo rimettermi in forze e andare via, non disturberò oltre. C'è una persona che devo assolutamente trovare.» Il Viola tornò nuovamente a perseguitarla — si era trascinata nel deserto soltanto perché era la vendetta a guidare i suoi passi. Era convinta che avrebbe potuto trovarla in qualsiasi momento — e allora perché non si era presentata al suo cospetto prima? Perché non aveva finito ciò che aveva cominciato? Con gli occhi iniettati di sangue, Ophelia guardò attentamente Eirian. «Vedo i suoi occhi in ogni mio sogno. Lei vive dentro di me.»

    Non aveva mai avuto così tanta voglia di urlare.



    Edited by desenlace. - 5/3/2023, 23:41
     
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    «Mi hai posto tre domande molto difficili, Ophelia,» mormorò Eirian dopo un momento di silenzio. Posò la ciotola sul pavimento, l'ombra muovendosi con il suo braccio come un'eco indossata a mo' di coltre, e non guardò negli occhi la sua interlocutrice neanche quando ebbe raccolto abbastanza coraggio da risponderle.

    «L'ombra che vedi... L'ombra che vedi è mia, sì, ma non è la mia. Non era cucita al mio corpo come la tua è cucita al tuo; apparteneva a qualcun altro,» la voce le morì in gola e si prese un respiro di tempo per schiarirla, «Apparteneva... Apparteneva a una donna di nome Elaine. Siamo state imprigionate insieme nei carceri più venefici del mondo, e per sfuggirvi abbiamo dovuto pagare un caro prezzo.»

    Non elaboró oltre, e strinse le palpebre per impedire che lacrime traditrici sfuggissero al suo controllo. Elaine era la sua ombra, come era la sua forza, la sua vita. Unica fra tutte e più di tutte, insostituibile, e sempre a vegliare, nel buio, su di lei.

    Che scherzo crudele il destino aveva riservato loro — congiunte per sempre eppure mai più insieme, ognuna eterno ricordo di ciò che l'altra aveva perduto — ma il letto scavato dall'acqua sulle guance di Eirian era profondo, marcato dal tempo, e la donna ormai aveva imparato a controllare il fluire del dolore al di fuori di sé.

    Dopotutto, avvertivano ancora, flebile, il tocco l'una dell'altra. Ed era sufficiente — era sufficiente perché mai a più di un tocco avrebbero potuto anelare.

    «Non devi ripagarmi,» scosse il capo, quando le parole di Ophelia la riportarono alla realtà e al suo presente, strappandola via a forza dalla nebbia gelida dei ricordi di ciò che per sempre aveva perduto. Avrebbe voluto rimarcare la sacralità dell'ospitalità, la volontà di lenire le sofferenze di un'altra anima segnata, ma non riuscì a formulare una frase più lunga di quella già amaramente pronunciata. Restò in silenzio, a riprendersi dal bruciore rinnovato di una ferita ormai vecchia, ma mai rimarginata.

    Solo quando udì le successive parole di Ophelia si voltò nuovamente a guardarla, con gli occhi sbarrati e un dubbio snervante a curvare le sue labbra. Che fosse...?

    C'erano solo due occhi nei suoi incubi più neri, ed erano occhi che non potevano confondersi con quelli di nessun altro. Gli occhi di una fiera che non conosceva pietà, gli occhi del boia che tutto vedevano — gli occhi che sprezzanti le avevano negato la grazia implorata, senza rimorso, senza esitazione.
    Gli occhi che aveva imparato ad amare insieme alla voce di sua madre e che aveva imparato ad odiare più di qualsiasi altra cosa sulla faccia di Atonement.

    Aveva sussurrato il suo nome come una preghiera, sperando in vano che un legame di nome e di sangue valesse abbastanza. Non era stata lei il carnefice, ma sapeva — Eirian non aveva ancora determinato cosa fosse peggio, tra la codardia e l'indifferenza.

    E ancora una volta, pareva, il passato aveva bussato alla porta, sogghignando, per tormentarla — e lei lo aveva preso in braccio e accompagnato al caldo come se fosse una sposa.

    «Da chi è che fuggi, Ophelia? E quanti sanno che sei qui, ancora viva? Raccontami cosa è successo, per favore. Anche il più piccolo dettaglio potrebbe fare la differenza,» cominciò, con le parole a susseguirsi tanto rapide da inciampare, finché l'ombra — Elaine — non si mosse lentamente contro la sua guancia, di nuovo a sussurrare qualcosa di segreto al suo orecchio. Le spalle di Eirian si rilassarono appena, ed emise un lungo sospiro prima di continuare, questa volta con meno fervore: «Non devi dirmi tutto adesso, Ophelia. Ti sei appena ripresa, riposa. Quando sarai più in forze, se lo vorrai, potrai raccontarmi la tua storia.»

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    Una ferita.

    Risucchiò l'aria dai polmoni — cercò di annullare ogni estensione minima del suo essere solo per tendersi all'ascolto. Si rese ben presto conto di aver toccato un nervo scoperto, una ferita ancora sanguinante e in attesa di una cura che non sarebbe mai sopraggiunta. Perché Eirian era incompleta — il suo stesso essere era stato brutalmente strappato via, soppiantato dalle scelte diaboliche di qualcun altro. E aveva perso l'amore della sua vita — perché Elaine era esattamente questo, no? Perfino una come lei — perfino un essere immeritevole d'amore lo aveva compreso. Era tutta colpa sua, della sua curiosità, della sua necessità di sapere ogni cosa. Era nata per ferire, cresciuta come una bestia martorizzata dai suoi padroni — e non sapeva cosa fare per lenire il dolore di Eirian. Non sapeva cosa fare in generale — né sapeva dove andare, poiché ciò che l'aveva tenuta in vita sino a quel momento era esattamente l'idea della Bestia lacerata dalle sue stesse mani. Poteva avvertire il sapore ferroso del suo sangue estendersi dal palato sin dentro le viscere.

    Una ferita.

    Preferì il silenzio e uno sguardo duro e privo di sbavature — preferì l'atarassia, nuovamente, come soluzione al reale; come distanza tra sé e Eirian. Abbassò lo sguardo dorato, le iridi fulgide, e si concentrò sul lenzuolo che ancora stringeva tra le mani — come se fosse un modo per restare fisicamente ancorata a se stessa, nient'altro che un viaggio sicuro nell'estensione della sua inadeguatezza. Nessuno l'aveva preparata ad essere libera — a poter anche solo esprimere un'opinione. La libertà da poco acquisita aveva però portato con sé solo un enorme quesito — come poteva, da adesso in poi, decidere per se stessa? Le sue giornate erano scandite dal dolore, e soltanto attraverso quest'ultimo — si aspettava arrivasse lei da un momento all'altro, con il suo sguardo ingiurioso e la sua mano nodosa premuta contro il collo. Come avrebbe fatto, adesso, a gestire tutto ciò che si trovava al di fuori della sua prigione? Non aveva idea di come si vivesse — non aveva idea del significato del quotidiano, della banalità di una zuppa calda, dei sorrisi roventi rivolti contro un'anima danneggiata.

    Sapeva solo che Eirian aveva appena commesso il più atroce dei delitti — il primo atto d'amore mai provato da Ophelia.

    Chiuse gli occhi — poteva soltanto percepire il suo respiro esagitato, le mani tremare nella convulsione dell'esasperazione. "Siamo state imprigionate insieme nei carceri più venefici del mondo, e per sfuggirvi abbiamo dovuto pagare un caro prezzo." Cos'era quella sensazione proprio sotto alla bocca dello stomaco? Disgusto? Paura? No, compassione — empatia. Eirian poteva capirla con un'intensità mai provata prima di quel momento — e ciò avrebbe significato soltanto una cosa. Scappare era l'unica soluzione — per preservarsi, per sopravvivere.

    Nonostante le sue ferite fossero ormai guarite, trovò molto complesso muoversi dalla brandina — i muscoli ancora le dolevano, forse tesi nello sforzo del sonno ricco di incubi — o forse nella banale scusa di un inetto, di un cane randagio accudito da un'anima pia, un cane che mai prima d'ora aveva conosciuto la potenza di una carezza — ma che aveva solo e soltanto assaggiato la prepotenza di uno schiaffo.

    Molteplici ferite.

    Sollevò una mano nella direzione di Eirian. Perché tutte quelle domande? E perché proprio in quel momento di profondo cordoglio? «Ho solo bisogno di qualche ora... da sola.» La voce uscì rauca, graffiante — fosse stata una ferita, avrebbe grondato di sangue. E di veleno. E di tutto il nero.

    [...]

    Tutto d'un fiato.
    Tutto d'un fiato, come si fa con ciò che fa più male — tutto d'un fiato, come ci si precipita verso l'amore ma con un'intensità tale da dilaniare le carni dell'altro, polverizzando il cosmo, annichilendo ogni cosa al proprio passaggio.

    Aveva raccontato ad Eirian — ed Elaine — tutto ciò che ricordava. Lo aveva fatto con un'urgenza tale da spaventarla, con un tono di voce così diverso dal suo — sempre così controllato, spento, distante, e adesso acceso da pulsioni indistinte — dalla volontà di essere creduta. Si era a lungo soffermata su quegli occhi. Su quel baratro Viola di eterna perdizione — su quelle fiamme voraci ed eterne. Su quel ghigno di bestia, una spaccatura nella sua sanità — ormai lontana, ormai perduta. Le aveva raccontato di quanto fosse immensa e un attimo dopo invisibile. Di come, lasciata al buio, aveva imparato a riconoscerne i lineamenti. Di come, al buio, aveva imparato a fingersi morta per non attirare la sua attenzione e di come l'aveva implorata di toglierle la vita. E di quante volte aveva provato a farlo da sola — e sempre ad un passo dal successo, erano quelle stesse mani a bloccarla. A spingerla contro il muro, a schiacciarla contro il suolo. Le aveva raccontato di ricordare ancora il suo odore — e senza vergogna di sentirne la mancanza, poiché era l'unica nota agrodolce nel costante sapore ferroso del sangue. Di come adesso, senza vederla, continuava a sentirla — negli occhi di tutti. Ma nessuno poteva essere come lei — Ophelia raccontò della sua malattia. Della sua ossessione per la donna della quale non conosceva neanche il nome, e neanche il volto. Dei profondi solchi disegnati sulle braccia, cicatrici eterne che aveva sfiorato per errore in una sola occasione. Sentiva ancora i polpastrelli bruciare.

    Aveva parlato delle torture. Della sua prigionia. Dell'agonizzante dolore — del sentirsi costantemente deprivata di qualcosa, di essere violentata da mani sempre diverse, sempre più numerose. Sempre più arrabbiate. Del continuo blaterare di un Risveglio — di una verità dietro il Velo. Di una chiave — o forse di una porta, o di nessuna delle due. Di cose che non avrebbe potuto comprendere e che non avrebbe dovuto vivere.

    Nessuno l'aveva preparata a un simile scenario — nessuno. Sentì le guance bagnate, rigate dalla salsedine, e si sentì sopraffatta. Vulnerabile.
    Squadrò Eirian — e nell'intensità del suo sguardo, Ophelia le stava urlando qualcosa. Qualcosa di impronunciabile — di incomprensibile. Una richiesta d'aiuto, o la violenza del rifiuto. Avrebbe voluto farle bere veleno nella speranza, però, di morire per prima.

    «Non sono pronta ad essere libera.»

     
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    Eirian annuì, raccogliendo la sua ciotola e quella della sua ospite per portarle al lavandino: «Posso lasciarti sola per tutto il tempo che desideri, Ophelia. Riposa, rifletti.»

    Aprì il rubinetto e alzò leggermente la voce per sovrastare il rumore dell’acqua e delle stoviglie da pulire: «Tutto ciò che vedi nel rifugio è tuo, finché resti. Ci sono provviste, vestiti, puoi usare liberamente il bagno e quel poco intrattenimento che abbiamo a disposizione.»

    Quando ebbe finito di ripulire, si asciugò le mani con un grembiule appeso accanto al cucinino, poi si avvicinò a uno degli armadietti nell’angolo e afferrò un piccolo oggetto prima di tornare al lato del letto.

    «Quando sarai pronta a rivedermi, anche se ancora non dovessi aver voglia di parlare, puoi chiamarmi con questo,» porse un gessetto bianco a Ophelia, tenendolo sul palmo della mano finché l’ospite non l’ebbe raccolto: «Scrivi il mio nome sul pavimento, oppure su una parete — una qualsiasi superficie, anche bianca, andrà bene. Arriverò il prima possibile appena lo avrai fatto; lo percepirò a prescindere dalla distanza che ci separa. Va bene?»

    -

    «Puoi restare, Ophelia,» disse Eirian con voce pacata, cercando di tenere sotto controllo la rabbia che ribolliva nelle sue vene per la serenità della sua ospite, «Puoi restare tutto il tempo che vuoi, possiamo aiutarti.»

    Aveva ascoltato in religioso silenzio la confessione vomitata dalla donna, offrendole mutamente conforto con un cenno del capo o il tocco gentile di una mano nei momenti più difficili. Sentiva i polsi bruciare di un dolore fantasma, riusciva chiaramente a vedere con l’occhio della mente le torture che Ophelia descriveva, ma soprattutto comprendeva la sensazione di impotenza e disperazione che aveva avvinghiato il suo cuore — non solo la comprendeva, la ricordava.

    Ricordava il dolore, la delusione, la sconforto e la frustrazione; ricordava l’ira in cui si erano trasformate, e poi l’angoscia, e poi l’arduo, amaro rinvigorimento.

    Ricordava quel volto, la sorpresa e la paura che aveva provato nel vederlo così martoriato, quasi irriconoscibile; la difficoltà che aveva incontrato nel tentare di riconciliare l’immagine che aveva di Aidan con quella che aveva visto quella notte maledetta. La pena e l’infinita costernazione nel sovrapporla al viso che riusciva a rammentare più nitidamente della risata di sua madre.

    Non pronunciò il suo nome, neanche quando Ophelia quasi sembrò cercarlo, ma chiunque avrebbe potuto cogliere la nota di familiarità, di consapevolezza nello sguardo di Eirian.

    «Ti prometto,» iniziò quando la donna fu infine caduta in silenzio, poi deglutì, avvertendo le parole sulla lingua come piombo tra i denti, «Ti prometto che, anche quando deciderai di andar via, non tornerà a prenderti.»

    Non ne vali la pena. Eirian lo sapeva bene.

    Nessuno ne valeva la pena.

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    Un dolore condiviso.

    L'anima di Eirian sembrava offuscata dal dolore — da ricordi passati ma ancora vividi, incisi sulla pelle come cicatrici indelebili. Erano poi così diverse? Nel banale gioco del destino e nel districarsi perenne dei fili della verità, Ophelia si era resa conto di non essere sola. Forse per la prima volta nella sua vita. Forse per la prima volta da quando era riuscita a scappare — a lasciarsi alle spalle le deprivazioni dei suoi carcerieri, le minacce di una vita da trascorrere nel nullificante abisso di quel Viola che l'avrebbe inseguita per sempre. Che lo aveva fatto da sempre.

    Un dolore condiviso.

    Sentiva la gola secca — decise di bere, a più riprese, ma non riuscì a scrollarsi di dosso la sensazione di deglutire sabbia. La sentiva ovunque, in tutti gli orifizi — faticava a respirare, come un'indomita forza che non le avrebbe permesso di mettersi in salvo per nessuna ragione al mondo. Le mani erano umide, incollate l'una all'altra, premute contro la rigidità delle sue dichiarazioni. Faceva male — un male diverso da quello inflitto da mani esperte, era un male arpionato alla sua pelle e schiacciato contro i polmoni. Eirian sembrava sussurrare anche io, sembrava volersi connettere ad una profondità diversa — voleva strapparla via dal cordoglio, via dal ricordo.

    Il suo tocco era leggero, ma non era violento. Poteva percepirlo come un caldo sussurro nel buio della notte, come una flebile presenza nella sicurezza della sconfitta, come un'ultima volontà prima dell'abbandono — lo aveva sempre saputo, di non essere niente. Lo aveva sempre saputo di non avere alcun ruolo se non quello di cavia, quello di esperimento.

    Nient'altro che un numero. Erano entrambe numeri? Potevano patire entrambe lo stesso dolore?

    Si alzò senza fare alcun rumore — camminò lungo il perimetro che aveva imparato a riconoscere come casa, mise quanta più distanza possibile tra sé ed Eirian. Tra sé ed Elaine. Non ebbe il coraggio di incrociare lo sguardo a quello dell'Ombra, per qualche strano motivo percependo sensazioni che non avrebbe mai e poi mai voluto sentire davvero. Come poteva anche solo pensare di dimenticare il modo in cui l'aveva guardata?

    Completamente disabituata al concetto di cura, al concetto di delicatezza — impossibilitata ad amare, incapace di comprenderne l'estensione possibile. Incapace anche soltanto di vivere. Ophelia non era sopravvissuta per poter trovare conforto, no — non era giunta fin lì per sentirsi accolta. Non pensava di meritarlo, ma forse non era soltanto quello. Era il terrore, la paura, la resa — il cedimento.

    Il panico che si era insinuato sotto la sua barriera, quella tregua che le era stata concessa. Eirian l'aveva salvata, senza chiederle nulla in cambio — senza prendere nulla. E Ophelia era così danneggiata da trovare tutto insopportabile, eccessivo, estenuante. Nella conflittualità delle sue sensazioni, si voltò nuovamente per stabilire con la donna — probabilmente più giovane — un contatto visivo.

    «È di questo che ho paura.» Guardò in basso, come colpita da una realizzazione più grande di lei — più grande anche solo di quella stessa stanza. «Che senso avrebbe la mia esistenza? Non riesco... non riesco ad immaginarmi al di fuori di lei.» Le iridi tremarono, il fiato si fece corto. Riuscì a trovare sollievo premendo le spalle contro il muro.

    «Non so niente di questo mondo, non appartengo a nessuno.» Panico, o forse rabbia. Il battito aumentò in modo frenetico, il respiro cominciò a divenire sempre più febbrile e fuori controllo. Scivolò lentamente al suolo, con le mani premute contro le tempie e le ginocchia strette al petto.

    Dalle corde vocali di Ophelia non fuoriuscì altro che un insieme di suoni gutturali, violenti — Eirian si sarebbe trovata di fronte al lamento di una ferita profonda, di un solco inguaribile. Avrebbe sentito tutta la rabbia e tutta la frustrazione e tutto il resto — tutto ciò di cui Ophelia poteva disporre. Era il dolore a cui aveva saputo dare un suono, una consistenza. Come un animale ferito.

    Durò infiniti secondi.
    Uno stillicidio.
    Un dolore condiviso.

    «Non ho nessuno da cui tornare, nessun motivo per cui valga la pena combattere. Nessuno che aspetti il mio ritorno.»

    Distese le gambe, abbandonando stancamente le braccia lungo il corpo. Sembrava esausta. «Vivo nella speranza che possa uccidermi.»

     
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    Ophelia,

    Non possono Eirian ed Elaine fornirti un motivo per continuare a muoverti, a respirare, a guarire. Non possono darti indietro sogni o desideri, o soffondere la tua disperazione di coraggio. Certo è che se non ha perso la speranza un’Ombra, forse puoi concederti di aggrapparti a un lembo di essa anche tu.

    E certo è anche che, se anche non possono fornirti nulla di ciò che rifulge in un animo acceso, possono farti una proposta. Non a cuor leggero la pronunciano, e non a cuor leggero puoi tu scegliere di accettare; però viene espressa, una mano tesa, un motivo, quando tutto manca, se non altro per continuare a combattere.

    Puoi camminare con loro. È un cammino solitario, quello delle Scintille, che sono insieme solo in spirito e di rado respirano la stessa aria; però in spirito mai da sole, in spirito fianco a fianco come sorelle, guardie, stelle. Non puoi sapere tutto, e anzi, non puoi neanche sapere molto; ciò che ti è concesso, tuttavia, è conoscere il Nemico — o i Nemici. Né dei Silenti né delle Percussioni puoi fidarti: misura bene le parole pronunciate di fronte al Bianco e di fronte al Rosso.

    Della Scintilla puoi fidarti sempre. Non siete in tanti, ma neppure in pochi, e sempre più di quanti si pensi; un sottile tratto d’argento su fondo blu notte è per te bandiera di un porto sicuro.

    Ottieni il tuo primo Punto Consapevolezza quando Eirian fa chiarezza sui Domini — ciò che ha permesso a Elaine di restare con lei, e ciò che permette a te di parlarle. Ti è concesso di restare a dormire e a mangiare per tutto il tempo di cui hai bisogno, soprattutto tenendo conto degli incubi che deformeranno il tuo sonno nei giorni a venire.

    Da adesso in poi — o forse già da prima, in realtà, senza che te ne sia mai resa conto — la cattività è tua acerrima nemica. Mai più catene e mai più sbarre; il servizio alle Scintille, se scegli di offrirlo, sarà sempre e comunque volontario, mai vincolante — almeno finché non sarai assolutamente certa di voler dedicare ad esse ogni tuo sforzo. Gli ambienti chiusi e da cui non hai libera uscita sono fonte di estrema tensione, di terrore addirittura, a meno che tu non riesca a trovare un metodo per tranquillizzarti, razionale o meno che sia.

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